È sempre con un certo piacere che constatiamo come, con il passare degli anni, sia sempre maggiormente sentita l’esigenza di un riavvicinamento alla natura, di un ritorno sentimentale a quella madre vegetale che, per troppo tempo, abbiamo cessato di cercare. Un amore o anche semplicemente una simpatia nei confronti del naturale che è davvero confortante.
È senz’altro curioso che, proprio in un periodo in cui le devastazioni sulla natura si sono fatte tanto intense, si avverta l’esigenza di ritornare a un passato impossibile. D’altronde tutto ciò non è originale, possiamo dire che non è nemmeno il frutto più maturo della nostra sola epoca poiché il Romanticismo, uno dei movimenti culturali maggiormente attratti dal naturale incontaminato, nacque come risposta nostalgica nei confronti di un habitat distrutto dalla prima industrializzazione; e da quegli anni, di strada, ne è stata percorsa ancora tanta.
A onor del vero dobbiamo sottolineare che la nostra cultura occidentale, dall’antichità, soprattutto romana, ad oggi, ha sempre conservato nei confronti della natura un atteggiamento ambiguo: distrugge un ambiente selvaggio (il concetto di selvaggio non si trova molto in altre civiltà poiché la natura, anche quella “selvaggia”, è ritenuta essere domestica, sociale e familiare. Non c’è, in poche parole, una netta separazione Uomo/Natura) per addomesticarlo, piegarlo alla ragione umana, salvo poi rimpiangere ciò che ha perso. L’arte del XIX secolo è invasa dal sentimento della perdita e, come tutto ciò che si perde, sia ama alla follia.
Se oggi, nel XXI secolo, siamo ancora in balia del sentimento amoroso nei confronti della natura selvaggia (escursioni ad alta quota, viaggi esotici dal sapore d’avventura) e addomesticata (programmi TV pensati per trasformare cittadini modello in pollici verdi, floricolture nostrane invase da fiori e pianti di ogni sorta, progetti per il rilancio economico delle aree rurali) è proprio perché siamo dei perfetti Occidentali, costantemente alla ricerca di un legame con la natura che abbiamo già rotto, semplicemente ritenendola un’entità da noi separata.
Fatte queste doverose premesse, ricercare un legame è sicuramente meglio che ignorarlo, così, al pari dei nostri antenati, torniamo oggi a compiere, giorno dopo giorno, un percorso di avvicinamento nei confronti di quelle piante che, più di altre, rappresentano per noi Italiani un simbolo identitario, una parte del nostro spirito più che un semplice vezzo: la vite e l’olivo.
Vite (Vitis vinifera)
Forse la pianta che più di ogni altra è in grado di richiamare il nostro legame con la natura (quando il vino che produce è rosso come il sangue), da pochi anni a questa parte suscita nell’animo di giovani imprenditori un interesse sempre più marcato. Diverse zone italiane (il nord-ovest della Lombardia, per chi scrive, ne è un chiaro esempio) dalle quali la vite mancava da secoli, vedono infatti un ritorno di questa pianta consacrata a Bacco/Dioniso; un ritorno che non può che suscitare il più vivo interesse e la più sincera simpatia, soprattutto per la realtà di micro-cantine e micro-distillerie che la coltivazione della vite comporta.
Il ritorno alla natura, infatti, non prende unicamente le sembianze dell’interesse per il giardinaggio, ma, soprattutto, di coraggiosi investimenti per la vita campestre, agricola o pastorale che sia da parte di giovani imprenditori (nelle terre alte del Piemonte, ad esempio, è da poco tempo stato avviato il servizio “vado a vivere in montagna” che, con il progetto InnovAree, offre supporto a chi voglia sviluppare un progetto d’impresa nelle montagne piemontesi). Anche la politica, dunque, sembra seguire e incentivare simili tendenze; POCO MALE, potremmo aggiungere.
Provare interesse per questa pianta è davvero entusiasmante, non solo per le possibilità d’impresa che offre, ma anche per il rispetto e la venerazione per il nostro passato che essa rappresenta e per l’intimo significato che racchiude nei propri acini: dai nostri antenati la vite era venerata come simbolo di forza, di adattamento e rinnovamento della natura. La vita e gli istanti, anche i più belli, possono venire torchiati e disgregarsi, ma, dando tempo al tempo, possono rigenerarsi, divenire migliori di prima, proprio come l’uva che muta in vino.
Impegnarsi nella coltivazione di questa antica pianta non potrà che essere di buon auspicio per questo nostro Bel Paese, un Paese fiero e coraggioso che ha davvero bisogno di credere nuovamente in sé stesso e di ritornare a sognare un futuro migliore.
Olivo (olea europea)
Che pianta incredibile l’olivo! Di una forza tale che pur nei riflessi argentati ricorda l’elmo di Atena, la dea della sapienza cara ad Atene, patria della filosofia e del pensiero occidentale.
Questa antica pianta mediterranea, dalla piccola foglia lanceolata e in grado di riflettere i raggi del sole come nessun’altra, è forse il simbolo più intoccabile dell’Italia, quel carattere iconico che descrive perfettamente lo spirito del nostro popolo (saggio e amante della pace più che della guerra). Diffusa da nord a sud, dalle rive del Lago di Garda fino alle più calde coste di Sicilia l’olivo è parte integrante non solo della natura del Mediterraneo, ma, anche e soprattutto, dell’economia agricola del nostro Paese. Quando, qualche anno fa, molti olivi italiani si ammalarono fu davvero un brutto colpo per i nostri agricoltori che, improvvisamente, si sentirono come privati di una parte del proprio organismo: non erano infatti per essi unicamente una fonte di sostentamento, di entrate monetarie…erano molto di più, erano parte della propria eredità culturale e familiare; erano, di fatto, i componenti più anziani di una natura che è anche famiglia.
È davvero un peccato, una vera disgrazia per tutti noi perdere, poco per volta, questo nostro patrimonio; perderlo per non riaverlo più. Ecco perché dovremmo, tramite un’azione congiunta della società civile e dello Stato, impegnarci realmente per una tutela dei nostri olivi e della natura in genere. Interessante è notare che la voglia, da ambo le parti, sembra essere sempre più ferma e viva, anche se, ad oggi, i problemi legati alla Xylella non sono stati ancora completamente risolti.
Di non poco conto è notare come entrambe le piante di cui abbiamo parlato non siano selvatiche ma frutto di costanti e continui interventi di domesticazione. La nostra cultura, come dicevamo all’inizio, è infatti sempre stata molto dualista: da tempi immemori vede la natura come la sfera opposta all’uomo e cerca, intervenendo su di essa, di renderla più vicina ai propri bisogni, di umanizzarla potremmo dire. Una sorta di dimensione altra rispetto all’umano dalla quale però attingere anche ispirazioni artistiche e virtù, sia civili che guerriere; questo e molto altro sembra essere la natura per noi Occidentali.
Ad ogni modo, oggi, dopo un lungo periodo di completo disinteressamento nei confronti del naturale, assistiamo a una chiara inversione di rotta: le fughe verso le campagne, investimenti maggiori nel campo agricolo e un maggior interesse per le piccole produzioni, bio e a basso impatto ambientale. Il desiderio per l’Arcadia ci avvicina ai nostri antenati del XVII/XVIII secolo; una vittoria della campagna sulla città. Tutto ritorno, sempre, non identico ma simile.
Ecco perché “Oggi come ieri” sembra il “nuovo” motto della nostra generazione, non molto nuovo nei contenuti ma innovativo per le forme con le quali si esprime: pubblicità multimediale in grado di proporre prodotti sani e “fatti come una volta” fin sul piccolo schermo dei nostri tablet e smartphone, scritte accattivanti su cartoni di latte di montagna o succo di mirtilli biologici dispersi ai lati di un campo di grano. Celebrazione del paradosso della modernità: una modernità che osanna la natura nello stesso momento in cui la oggettivizza e deturpa. Speriamo che queste siano solo sviste, errori da superare in vista di un futuro più attento all’ambiente, più antico nei propri legami spirituali da stringere con la natura.
Auguriamoci insomma che l’ “oggi come ieri”, pur con tutte le sue limitazioni, non si fermi a essere solo una scritta luminosa o uno spot di una qualche multinazionale, ma una cifra culturale in grado di guidare i nostri giorni a venire, all’insegna di un rispetto maggiore nei confronti di una natura che, se presso di noi è sempre stata poco umana, poco familiare, ha sicuramente goduto, in passato, di maggiore rispetto e considerazione.