Tra fotografia, cinema e architettura, Ernesta Caviola ha raccontato ad Habitante il ruolo della donna nell’architettura e la nascita di Architettrici.
Chi è Ernesta Caviola? Di cosa si occupa nello specifico?
Il mio lavoro ha delle caratterizzazioni che girano tutte intorno al tema dell’architettura. Per tutta la vita, ho lavorato in una dimensione specifica, che è quella di come comunicare l’architettura. La comunicazione dell’architettura ha una specie di ossimoro di partenza, in quanto ogni edificio è dotato di indirizzo: o lei è in grado di viaggiare e di raggiungere quell’indirizzo o dell’architettura avrà solo un sentore, la sentirà raccontare in un modo mediato. Si evince come vi sia tutta una relazione complessa per chi comunica l’architettura e l’originale, in quanto l’originale architettonico ha questa caratteristica della non mobilità.
Dunque, il comunicare l’architettura, cosa che io faccio con la fotografia e attraverso il mio lavoro di regista, diventa una questione fondamentale. Provo a trovare un modo per fare viaggiare l’edificio, per renderlo condivisibile. Questo, però, è molto lontano da quello che è l’esperienza originale, per cui è come se io avessi fatto per tutta la vita un lavoro impossibile.
Come è iniziato il suo percorso professionale nel campo dell’architettura?
L’architettura è stata uno dei grandi amori della mia vita. Ero piccola ed i miei genitori avevano l’abitudine di andare alle terme ogni anno a Chianciano. Passavamo lungo l’autostrada del sole ed a Firenze c’era sempre questa sorpresa che mi emozionava, vedere la chiesa progettata da Giovanni Michelucci. E io ogni volta rimanevo incantata dal suo tetto di rame e dalla sua forma così diversa da qualsiasi altra cosa avessi visto. Ed è così che è nata la passione per l’architettura.
Qual è la sua idea di architettura? Quali sono i principi che contraddistinguono le sue creazioni?
Nell’architettura esiste una modalità che è consolidata è che è una modalità maschile. Il femminile si affaccia sull’architettura con grandissima fatica e nel momento in cui emergono delle figure potenti come Lina Bo Bardi, improvvisamente, diventa chiaro in un istante quali siano i principi che possono permetterci di fare un’architettura più vicina al nostro presente. Lina Bo Bardi era solita dire “io volevo fare un’architettura cattiva, un’architettura che non fosse un architettura formale”.
Questo termine cattiva, in portoghese è molto interessante, “feia” vuol dire anche brutta, ci parla una modalità di approccio informale anche molto fisico, non esclusivamente compositivo. Roberto Burle Marx, noto architetto di giardini, brasiliano anche lui, dice una frase che racconta pienamente la mia idea di architettura “Se vuoi i pappagalli nel tuo giardino, tu devi piantare questo albero”. Pensare all’esperienza dei pappagalli che passa attraverso la scelta dell’essenza di un albero è esattamente quello che penso sarà l’architettura del futuro.
Il ruolo della donna nel mondo dell’architettura è una tematica, ancora oggi, particolarmente delicata. Come è nata l’Associazione Architettrici e quali sono i suoi obiettivi?
L’associazione culturale Architettrici è nata in un momento covid. Il team è composto da cinque membri: Francesca Ameglio, Raffaella Aragosa, Michela Ekstrom, Daniele Vergari. L’idea è quella di lavorare sulla linea genealogica. Il nostro obiettivo è quello di dimostrare che le architettrici nella storia ci sono sempre state. Noi lavoriamo con un livello comunicativo molto alto, lavoriamo con i video e con una modalità teatrale, in modo che i concetti passino quasi sempre senza che il pubblico si annoi, nel modo più naturale possibile.
Normalmente, siamo soliti pensare che le architettrici non ci siano, ma in realtà non è vero, loro sono sempre esistite e le testimonianze sono infinite. In una serie di documenti risalenti al 100 a.c., abbiamo testimonianza di donne che avevano fatto realizzare ponti ed acquedotti. L’antropometria delle mani, tramite alcuni studi, ci mostra come, nelle grotte preistoriche, moltissime impronte delle mani sono femminili. Grazie a queste e ad altre testimonianze, vediamo come le architettrici ci sono sempre state, ma sono state spazzate via da una damnatio memoriae ferocissima. Le possiamo ritrovare, è solo questione di tempo. Questa è la nostra missione, occuparci di questa linea genealogica rendendola una dimensione tangibile e facendo un grande lavoro di comunicazione e consapevolezza.
Come architettrice, fotografa e regista, nel corso della sua vita Ernesta Caviola ha raggiunto cariche professionali degne di nota. Ha riscontrato difficoltà a causa della disparità di genere lungo il suo percorso professionale?
All’inizio della mia carriera, ho lavorato in cantiere. E quando i capi cantiere utilizzavano il termine architetta,a sfregio, io li guardavo e dicevo “ è più elegante archiseno”. Questo è uno dei motivi che ci ha spinto a scegliere architettrici come nome dell’associazione. Che sia come architettrice, fotografa e regista, nel mio lavoro ho sempre vissuto in mondi professionali prevalentemente abitati da uomini. E ho constatato direttamente come ancora non siamo ancora arrivati alla parità.
Quali sono i suoi modelli di ispirazione nella storia dell’architettura femminile?
Uno dei miei principali modelli di ispirazione è sicuramente Lina Bo Bardi. Io ritengo sia la figura più esplosiva per quanto riguarda il mondo femminile dell’architettura, proprio per quanto riguarda la modalità. Quando lei realizza la sua casa, a San Paolo, quella che oggi è nota come la “Casa de Vidro” Lina Bo Bardi è un’europea colta che arriva in un luogo lontano dalla sua cultura d’origine e crea un edificio che fa riferimento al modernismo olandese, semplice, elegante con tutte le pareti vetrate.
Dopo aver trascorso la prima estate nella casa si rende conto che doveva cercare una modalità per fermare il sole. In quel momento abbandona la modalità compositiva e si apre ad una modalità come dicevamo prima “cattiva”, lei non mette degli scorrevoli, ma sceglie delle tende oscuranti. Queste andavano a stravolgere completamente il sistema compositivo della casa che non era più così semplice, elegante ed olandese. Sceglie inoltre di lasciar crescere gli alberi vicini alla casa permettendo alla natura di inglobare la casa, di “divorarla” qui inizia il cambiamento di linguaggio che renderá unico il suo percorso creativo. Lina Bo Bardi accetta di non aver compreso il luogo, e se ne lascia completamente contaminare, cambia il suo modo di fare l’architettura che la porterà alle finestre progettate come buchi scaramazzi nel SESC Pompeia a San Paolo ed a Salvador da Bahia.
Desidera lasciare un messaggio ai lettori di Habitante?
Insieme all’associazione siamo soliti raccontare una storia. Nel film l’Esorcista, vi è una scena particolare: lei è seduta e c’è anche un fanciullo. D’improvviso il cassetto del comodino si apre e il fanciullo le chiede “sei stata tu? Sei in grado di farlo di nuovo?”. Lui la sfida, esattamente come veniamo sfidate noi ogni giorno e in qualunque momento. E lei, voltandosi verso il fanciullo, risponde “Nel tempo”. Questo è uno dei principi costitutivi di Architettrici. Il messaggio che lascio è questo: nel tempo. Noi ragazze abbiamo già vinto: è solo una questione di tempo.
Habintante ringrazia Ernesta Caviola per la disponibilità.