“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsenevia. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nellagente, nelle piante, nella terra c’è sempre qualcosa di tuo,che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Cesare Pavese
La strada di casa, quando il luogo in cui viviamo assume caratteri spirituali
Chi, nell’autunno del 2016, si fosse ritrovato a passare per Quargnento, un piccolo comune della Provincia di Alessandria, dopo avere percorso le tipiche piccole strade del Monferrato annegate nella nebbia, probabilmente avrebbe potuto apprendere che, nelle sale del Palazzo Municipale, si stava tenendo una mostra dal titolo Carlo Carrà da Quargnento. 1881-1966 cinquant’anni dopo. Una mostra che, con il senno di poi, avremmo appreso essere stata accolta con quella particolare attenzione e ammirazione che si rivolge agli eventi di successo.
Perché il riferimento a una mostra inaugurata oramai più di un anno fa?
Principalmente perché, a chi scrive, quella giornata offre la possibilità di aggrapparsi, oltre al vago sentore di freddo umido che la memoria riattualizza, in particolar modo al vivido ricordo di un un’opera del maestro quargnentino: La strada di casa, un piccolo cartoncino di 25,5×35,5 cm, a inchiostro e acquerello, realizzato nel 1900.
Ora, quello che ognuno di noi sa fin troppo bene, quando ci si tuffa nell’interpretazione artistica in compagnia di un qualche altro compagno di ventura, è che risulta molto difficile trovare un accordo che accumuni le diverse posizioni non meramente tecniche. Ciò che il dialogo con un’opera suggerisce a una persona potrebbe risultare molto differente da quello che viene rivelato a un’altra e, in parte, tutto questo potrebbe dipendere dai diversi trascorsi individuali.
In virtù di quanto detto, in ultima analisi, l’incipit offertoci dall’opera di Carlo Carrà potrebbe essere non universalizzabile… dopotutto però, data la simile taratura umana, si è più propensi a credere di sì.
La strada di casa, con le sue piccole dimensioni, sembra essere un foro, un’apertura nella mente di un uomo che, con l’uso di sostanze materiche come l’inchiostro e l’acquerello, riesce a rendere l’osservatore partecipe di un particolarissimo momento della sua vita: la mattina dell’addio alla sua abitazione, al suo paese, alla sua terra, all’alveo all’interno del quale il suo giovane corpo si era venuto formando.
Come ebbe a dire in seguito Carlo Carrà, riferendosi a quel significativo giorno:
« Fuori dalle case mi volsi a guardare il paese, che era chiaro nel biancheggiare dell’alba, e un singhiozzo mi fece un groppo alla gola. Sentivo confusamente che lo lasciavo proprio per sempre ». ( C. Carrà, La mia vita, Milano, 1943 )
Non è un caso che non vi siano altre opere dell’artista quargnentino, oltre a quella presa in esame, che si cimentino nella difficile rappresentazione del luogo natio e di quello che riesce a evocare: in genere, nelle situazioni nelle quali ne va di una parte consistente della nostra vita, nel caso specifico nel momento in cui l’artista si appresta ad andarsene da casa per più completamente fare ritorno ( tornerà fisicamente diverse volte ma mai sarà come negli anni adolescenziali ), ogni ricordo e sensazione si condensano in un’immagine che, dopo averla bloccata nel colore, nella scrittura o semplicemente in un pensiero fuggente, non ritorna più, un po’ per volontà nostra, un po’ per incapacità nel ritornarvicisi.
È incredibile come cominci a caricarsi di significato solo ciò che si sta perdendo e la Storia, nel suo svolgersi, sembra offrirci continui spunti di riflessione in merito: i fasti dell’epoca classica negli anni del Medioevo, le selvagge e indomite foreste dell’Europa centrale durante la rivoluzione industriale e il senso di abitare un territorio in un’epoca di grande mobilità umana e di sfruttamento territoriale quale è la nostra.
Noi confusi cittadini del XXI° secolo, camminando in bilico lungo lo sdrucciolevole crinale del deradicamento, abbiamo fame di appartenere a un luogo comodo, intimo e caldo che desideriamo chiamare casa; una casa che prima di essere una struttura fisica nella quale vivere è un luogo nel quale si accumulano ricordi, emozioni e percezioni.
Se l’uomo non fosse stato dotato di una facoltà spesso bistrattata, la memoria, la casa non esisterebbe. Possiamo esserne certi. Continuerebbe a esistere al pari un qualsiasi oggetto che, distrattamente, vediamo per la prima volta ma non sarebbe per noi tanto significativa, evocativa e avvolgente quanto quel luogo che, proprio grazie alle rievocazioni della memoria, riconosciamo ogni volta essere il nostro personalissimo condensato di affetti, colori, sapori, odori e persone non più necessariamente presenti.
Quando Marcel Proust, ne Alla ricerca del tempo perduto, fa di un semplice biscotto come la madeleine un oggetto in grado di rievocare i vissuti della propria infanzia, di fungere da via d’accesso verso ciò che si è sedimentato nella propria coscienza e memoria, altro non esprime, molto poeticamente, se non quello che fin qui si è cercato di spiegare.
Se, nel corso di questo articolo, si è abusato della parola casa è proprio perché, nella lingua italiana, non esiste un termine in grado di rendere l’idea di quello che un luogo abitativo spaziale e materiale dovrebbe necessariamente essere; un luogo dello spirito più che del corpo, un mondo che esiste grazie al passato conservato in noi.
Per concentrare la precedente riflessione in un concetto, operazione necessaria se non si vuole correre il rischio di perdersi per strada, dobbiamo affidarci al potente spirito di sintesi del popolo tedesco che, in passato, avendo coniato un termine intraducibile nelle altre lingue ( forse solo il greco e le lingue slave offrono un corrispettivo ) sembrerebbe ora fare proprio al caso nostro: heimat.
Questo vocabolo, che nel corso della storia ha assunto anche connotazioni politiche, ai fini del nostro ragionamento interessa unicamente in virtù dei rimandi all’infanzia e al tempo degli affetti che è in grado di conferire al luogo al quale si lega.
Volendo tornare a quanto dicevamo all’inizio, La strada di casa di Carrà sembrerebbe esprimere, con i suoi colori vibranti e linee avvolgenti che ci spingono verso il centro, proprio quella dimensione profonda e intima di ambiente familiare che è la heimat; una dimensione che tutti, prima o poi, abbiamo provata poiché, senza di noi, nemmeno esisterebbe.
Proprio nei momenti in cui siamo più lontani da casa, da quel focolare spirituale nel quale siamo nati, fisicamente e anche mentalmente, lei, quando meno ce lo aspettiamo, torna a cercarci, quasi volesse risparmiarci la strada del ritorno; chissà, forse è proprio in virtù della forza della memoria che abbiamo sempre accettato di viaggiare per il mondo espandendo i nostri orizzonti, consapevoli di conservare comunque sempre quello che, per primo, ci fu dato.
Come infatti il noto artista piemontese scrisse nel suo libro (C. Carrà, La mia vita, Milano, 1943 ) , diversi anni dopo l’adolescenza e ripensando a Quargnento, ovvero la sua dimora spirituale e affettiva, la sua heimat appunto, chi « come me è nato in un paese e vi ha trascorso l’infanzia, avrà sempre nella memoria immagini e sensazioni pressoché ignote a chi è nato in città. Soprattutto sono ancora vive oggi in me alcune strade che corrono in mezzo alla pianura aperta o si arrampicano sulle colline. »
Simone Fergnani