L’architettura sostenibile è la soluzione più adeguata alla messa in sicurezza degli esseri viventi in caso di calamità con la progettazione di abitazioni di emergenza.
“Sicura e resistente” coniugate con “dignitosa e sostenibile” sono i parametri che vogliamo appartengano alle abitazioni in cui accogliere persone in difficoltà, seppur temporanee.
Tante purtroppo le situazioni di emergenza in cui possiamo trovarci (terremoti, inondazioni, uragani, guerre) quindi appartiene un po’ a tutti i progettisti del mondo questa esigenza di sviluppare un’idea, un prototipo che possa funzionare all’occorrenza.
Un’idea vincente arriva da un ingegnere saharawi di 27 anni, il cui progetto ha fatto il giro del mondo, fino ad arrivare a Ginevra, al quartier generale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Dall’esigenza nasce l’ingegno per le abitazioni di emergenza nel deserto
Tateh Lehbib Braica, il giovane ingegnere, ha progettato delle abitazioni di emergenza per gli accampamenti dei suoi conterranei. Siamo nel deserto tra Algeria e Marocco, dove dal 1975 il popolo dei Saharawi è costretto a vivere in una striscia di terra desolata, in una situazione di “provvisorietà definitiva”. Questi ultimi transfughi da quarant’anni nel deserto algerino, necessitavano di un luogo al riparo dal calore e dalle tempeste di vento.
Nasce così questa sorta di trullo composto da seimila bottiglie di plastica piene di sabbia che andavano in sostanza a sostituirsi ai mattoni. Vediamo infatti che la forma circolare che caratterizza queste abitazioni di emergenza fa in modo che non ci si accumulino le dune contro le pareti. Inoltre le bottiglie in plastica, consolidate ad arte da una miscela di cemento, terra e paglia, sono rifinite poi con calce bianca.
Questa stratificazione fa sì che dal punto di vista dell’isolamento termico le abitazioni di emergenza siano isolate per il 90% in più di quello offerto dalle case tradizionali del posto in laterizio e tetto di zinco.
Il progetto di Tateh Lehbib Braica e di Ikea-Shelter per le abitazioni di emergenza
La maggior parte delle abitazioni di emergenza che vengono utilizzate per prassi, rapidità di accoglienza e risoluzione dei problemi, sono le cosiddette tendopoli. Come possiamo immaginare queste situazioni devono essere assolutamente temporanee: non sono concepite né concepibili per periodi superiori a 12 mesi, specie perché non sono pensate per superare condizioni climatiche estreme per gli abitanti.
Proprio da questo parte la sfida dell’Onu alla Fondazione Ikea, in partnership con l’impresa svedese Better Shelter, per trovare una soluzione meno precaria che si avvicini ai requisiti. Nasce così il primo esempio di monolocale montabile in quattro ore e facilmente trasportabile, grazie al progetto di Better Shelter su commissione dell’UNHCR due anni fa in 15mila esemplari. Arriviamo nel 2018 ad averne 30mila in tutto il mondo.
Come sono composte queste abitazioni di emergenza
Si tratta di una casa composta da quattro pareti di plastica riciclata di 17,5 metri quadrati. E’ energeticamente autonoma grazie al pannello solare sul tetto e una porta principale dotata di serratura. Questo dettaglio da non banalizzare è un aspetto fondamentale per l’approccio degli abitanti che dovranno vivere in queste abitazioni di emergenza. Per milioni di persone trasformate, non per loro scelta, in nomadi da guerra o catastrofi (come l’ultima del crollo del ponte Morandi di Genova), riappropriarsi di un mazzo di chiavi equivale a ritrovare la propria privacy e un senso, seppur vago di sicurezza.
Ma l’architettura segue il genius loci, quindi Tateh ha deciso di utilizzare le risorse locali per poter creare la sua abitazione di emergenza. In tutta semplicità racconta: «Volevo costruire una casa più dignitosa e confortevole per mia nonna». Il giovane ingegnere non si sarebbe mai aspettato un finanziamento di 55 mila euro dall’Unhcr per fabbricarne subito altre 25 per le famiglie dei cinque campi dove sono raccolti novemila saharawi, minacciati dal caldo e dalle inondazioni. Dunque sono necessarie abitazioni di emergenza più dignitose e confortevoli, ma che garantiscano resistenza e sostenibilità.
Ascoltare il territorio e le esigenze degli abitanti
Le abitazioni di emergenza sono quindi un non luogo dove delle persone, che stanno attraversando un particolare momento della loro vita, andranno a vivere temporaneamente. Difficile è quindi individuare il modo giusto di progettarle.
«È sempre molto importante tenere conto delle condizioni economiche, dello stile di vita, della fede religiosa, del clima e dei materiali reperibili sul posto. Anche gli alloggi d’emergenza devono essere adeguati ai fattori locali», avverte l’architetto giapponese Shigeru Ban. Vincitore del Premio Pritzker nel 2014 e noto per la sua Paper Log House, la casetta fabbricata con economici tubi di cartone, stabilizzata su cassette di birra riempite di sabbia e replicabile, a basso costo, ovunque.
L’architetto Shigeru Bar, ormai esperto di questo settore dal sisma di Kobe del 1995 fino a quello dell’Aquila del 2009, pone al centro dei suoi progetti le urgenze dei terremotati. Ricordando il suo Concert Hall a L’Aquila, cerca rimedio alla loro desolazione: «Attualmente ho un progetto in corso in Nepal: il terremoto è accaduto due anni fa, ma la ricostruzione dei villaggi prosegue tuttora. Dopo gli alloggi e dopo aver completato una scuola elementare, ora stiamo costruendo altre abitazioni e un tempio». Sempre con le stesse strutture di cartone dei primi progetti? «Sì, continuo a utilizzare i tubi di carta, al loro stato naturale».
La sicurezza è parametro fondamentale anche nelle condizioni più avverse
Quando l’emergenza diventa persistente è evidente che le abitazioni di emergenza che vengono date alle persone devono soddisfare più possibile le loro esigenze secondo i canoni prima descritti. Non parliamo quindi solo di case e quindi edifici residenziali, ma anche degli edifici per i servizi collettivi come le scuole e gli ospedali. Infatti il Dipartimento logistico di Medici Senza Frontiere ha sviluppato insieme Gaptek una struttura modulare prefabbricata che soddisfa le direttive del giovane ingegnere cileno, Carlos Cortez Heriquez, già provato in Angola, Congo, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, Serbia, Afghanistan e Sud Sudan.
L’ingegnere dice: «La difficoltà maggiore consiste nel costruire secondo gli standard che vogliamo in zone quasi inaccessibili ai mezzi di trasporto. Spesso, per ragioni di sicurezza, non possiamo arrivare con uno staff numeroso. Gli aerei sono piccoli e occorre essere pronti a una rapida evacuazione in caso di grave pericolo. In definitiva, si deve fare affidamento sulle risorse locali».
Abitazioni di emergenza: Modul(h)o
Nella primavera del 2017 viene creato quindi Modul(h)o, il Modular Durable Hospital, che possiede le caratteristiche di flessibilità immaginate dall’ingegnere Cortez: «Si adatta a diverse configurazioni ed è componibile in base alle necessità. Ogni modulo di 90 metri quadrati – spiega Cortez – può essere moltiplicato e collegato ad altri, fino a formare un intero reparto maternità, come a Doro, o una sala operatoria. I pavimenti, di alluminio e linoleum sono facili da pulire e igienizzare. Può essere montato in una settimana da sette persone inesperte, purché guidate da una competente».
Per la riuscita di un sistema di accoglienza per le persone che vivono disagi dovuti a catastrofi temporanee è importante avere abitazioni di emergenza ben fatte: questo si traduce in prototipi progettati in tempi utili e ben collaudati. Dal punto di vista psicologico è importante che l’architettura sia il luogo confortevole di cui hanno bisogno gli abitanti, anzi che lo sia a maggior ragione per il loro stato d’animo meno sereno della vita quotidiana.
Serena Giuditta